2 Aprile 2023 12:58
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Stanno divorando l’Amazzonia

Stanno divorando l’Amazzonia

Da enorme bacino in grado di catturare la CO2, l’Amazzonia si sta trasformando in una delle fonti di gas che riscaldano il pianeta.

La crisi climatica che investe tutto il nostro pianeta pare sia certo che perdurerà e influenzerà negativamente la sicurezza umana, sociale ed economica. Il mancato accordo sulla riduzione delle emissioni e sulla graduale uscita da tutte le fonti fossili al termine del recente incontro di Sharm el Sheik conferma le difficoltà di arrestare gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Tra le note positive, l’istituzione di un fondo, Loss and Damage, destinato ai Paesi più poveri che hanno subito le maggiori conseguenze del cambiamento climatico. In questo scenario preoccupante, dove Cina, Russia, India e Stati Uniti primeggiano tra i maggiori inquinatori del pianeta, la recente nomina del presidente brasiliano Lula fa sperare in un cambiamento radicale rispetto alla politica di Bolsonaro distruttiva nei confronti della più grande foresta tropicale del pianeta. Il Brasile è il sesto paese nel mondo responsabile del gas serra a causa soprattutto delle deforestazione.
Il presidente Lula, che entrerà in carica il prossimo 1 gennaio, ha dichiarato che rispetterà l’accordo con Indonesia e Congo per la tutela delle foreste e che sbloccherà i 500 milioni di dollari da Germania e Norvegia per l’Amazzonia, bloccati durante la presidenza Bolsonaro.
Già nei primi giorni di novembre, la Corte Suprema Federale del Brasile ha reso fruibili i fondi (circa tre miliardi di reais, oltre 500 milioni di dollari) congelati negli ultimi quattro anni dal governo precedente di estrema destra. Con questo decisivo provvedimento la Corte Federale ha restituito nuovo ossigeno alle casse delle due istituzioni governative di controllo e tutela della foresta pluviale che erano rimaste senza fondi, con conseguente riduzione di personale e mezzi. L’Amazzonia può ora tornare a respirare e sperare in un futuro rimboschimento.
“Il Fondo Amazzonia – ricorda in un’intervista al The Guardian Tasso Azevedo, coordinatore tecnico per l’Osservatorio climatico (https://www.oc.eco.br/ una ONG brasiliana) – è il più grande fondo pubblico per la protezione delle foreste mai costituito prima. Poter disporre di quel denaro significa rilanciare i programmi ambientali ed ecologici, dare nuovo sostegno a tutte quelle organizzazioni e strutture che Bolsonaro aveva tagliato fuori o abolito.”
Il fondo era stato creato da Lula nel 2008 all’inizio del suo secondo mandato e aveva ridotto la deforestazione del 70%. Un risultato che aveva proiettato il Brasile alla guida nella battaglia per la conservazione della biodiversità dell’Amazzonia. Un successo annullato dall’arrivo di Bolsonaro, più sensibile agli interessi dell’agro-business, con il cui appoggio aveva vinto le elezioni nel 2018.
Nel primo decenn

Luiz Inácio Lula Da Silva

io del Duemila sono andati distrutti 11 milioni di ettari di foresta all’anno, mentre tra il 2010 e il 2018 la media annua è scesa a 7,8 milioni di ettari. Il tasso di deforestazione è sceso quasi del 30% ma, nonostante questi progressi, il Sudamerica resta la zona in assoluto più  problematica con 68 milioni di ettari deforestati tra il 2000 e il 2018, seguito dall’Africa con 49 milioni di ettari. In questi otto anni, ai tropici è stato distrutto il 90% delle foreste, circa 157 milioni di ettari, più del triplo della superficie della Spagna.
Per contro, tra il 2000 e il 2018 sono stati piantati altri 46 milioni di ettari.
Secondo dati forniti dall’Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (INPE), si è verificato un aumento del 22% dei tassi di deforestazione in Amazzonia dal 2020 al 2021, le percentuali più alte degli ultimi 15 anni.
Luciana Vanni Gatti ricercatrice e studiosa della foresta pluviale presso l’INPE (Instituo Nacional de Pesquisas Espacias Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale) del Brasile ha dichiarato: “L’Amazzonia si trova in una situazione di emergenza, la deforestazione aumenta di anno in anno: il 2020 è stato peggiore del 2019, il 2021 peggiore rispetto al 2020, e siamo sicuri che il 2022 sarà ancora più negativo”.
Nel 2021, la temperatura media globale è stata di 1,1°C sopra la linea di base preindustriale.
Il limite di 1,5°C diminuirebbe fino al 44% il rischio per l’umanità all’esposizione di eventi catastrofici quali: siccità, caldo eccessivo, malattie diffuse da insetti, inondazioni fluviali e costiere. Nel 2020 la pandemia di Covid-19 ha provocato il rallentamento di tutte le attività nel mondo intero tranne il disboscamento della foresta amazzonica. Nello stesso anno in Brasile sono andati distrutti quasi trentotto chilometri quadrati di vegetazione al giorno, equivalenti a ventiquattro alberi ogni secondo.
Il fenomeno è in parte riconducibile ad a

Jair Bolsonaro

llevatori e agricoltori, che disboscano la foresta e bruciano i detriti per far posto a coltivazioni e bestiame. Gli incendi possono a loro volta incendiare la torba, la materia organica concentrata nel suolo che rilascia ingenti quantità di carbonio nell’atmosfera.
I dati raccolti dal sistema di stima delle emissioni di gas a effetto serra (Sistema de Estimativas de Emissões e Remoções de Gases de Efeito Estufa – SEEG) e dall’Osservatorio sul clima mostrano che il Brasile ha generato emissioni nazionali lorde di 2.16 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente. Rispetto agli 1.97 miliardi di tonnellate del 2019. Questi numeri hanno provocato allarmi tra gli esperti del clima.
Da enorme bacino in grado di catturare la CO2, l’Amazzonia si sta trasformando essa stessa in una delle fonti di gas che riscaldano il pianeta.
Un’altra minaccia per la foresta amazzonica è il disboscamento selettivo, un’azione distruttiva che consiste nel selezionare gli alberi da tagliare risparmiandone altri. Anche se non si rade completamente al suolo un’area, la foresta viene destabilizzata.
Lo scienziato ambientale Pontus Olofsson ha dichiarato: “La cosa preoccupante è che stiamo assistendo non solo alla deforestazione – che è relativamente facile da monitorare e tracciare – ma a un grande aumento di degrado forestale, fenomeno a causa del quale la vegetazione è privata di biomassa.”
I ricercatori si stanno affrettando per cercare di capire se e quando l’Amazzonia raggiungerà il temuto apice di criticità irreversibile, il punto di non ritorno quando la più grande foresta pluviale della Terra potrebbe seccarsi, trasformandosi in un’estesa savana. L’estrema conseguenza sarebbe la perdita di un ecosistema insostituibile con ripercussioni disastrose sulle dinamiche climatiche globali.
Uno studio apparso sulla rivista Nature, basato sulla raccolta di dati rilevati dai satelliti, ha evidenziato come il 75% dell’Amazzonia sia diventato meno resiliente rispetto a eventi avversi quali la siccità.
Gli scienziati hanno scoperto che la vegetazione in oltre tre quarti dell’Amazzonia ha iniziato a perdere resilienza già dai primi anni Duemila, registrando un tasso di ricrescita più lento.
I ricercatori hanno potuto dimostrare come le aree che ricevono meno precipitazioni o che sono più vicine a fattori di disturbo causati dall’uomo, come i terreni agricoli, stiano perdendo resilienza più velocemente rispetto alle terre più umide e incontaminate.
Lo scorso 7 maggio il COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti) ha organizzato un convegno al MAXXI di Roma. La ONG ha rinnovato anche per il 2022 il proprio impegno a difesa della foresta pluviale con la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi AMAzzonia.
L’evento si è svolto contemporaneamente con la mostra “Amazônia” del celebre fotografo e ambientalista Sebastião Salgado.
Durante il convegno, cui hanno partecipato rappresentanti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, il leader della resistenza dei popoli nativi che vivono nella foresta, Adriano Karipuna ha dichiarato: “Temiamo di essere assassinati perché difendiamo la foresta pluviale.”
Il processo di deforestazione dal 2019 ha subito un nuovo slancio con l’insediamento del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, protagonista di una politica favorevole allo sfruttamento delle terre fertili da parte di grandi industrie alimentari e minerarie e compagnie energetiche.     È assolutamente necessario schierarsi contro questo comportamento distruttivo che potrebbe rappresentare un gravissimo pericolo, anche nel breve termine,

a livello mondiale.
Adriano Karipuna ha rilanciato l’allarme: “I killer arrivano nelle nostre case. Non lasciateci soli: il patrimonio degli alberi vivi serve a tutti, non soltanto agli indios. Se la foresta si estingue, la globalizzazione, ossia il mondo intero, risentirà di questo impatto ambientale e sociale e del riscaldamento globale.”
La comunità internazionale deve prendere coscienza che la lotta degli abitanti dell’Amazzonia non è solo una questione “locale”, ma la sopravvivenza della foresta amazzonica riguarda tutto il mondo. L’esistenza e la resistenza dei popoli indigeni coinvolgono il benessere dell’intero pianeta. “I popoli indigeni esistono e resistono. Per esistere devono resistere. Noi indigeni della foresta abbiamo bisogno di due cose per esistere e per resistere: abbiamo bisogno della foresta, una foresta che esiste e che resiste e per questo abbiamo bisogno di più sostegno. Oggi il nostro popolo riceve sostegno soltanto da Greenpeace Brasil, dal CIMI (Consiglio Missionario Indigeno), dal COSPE e da alcuni media. Siamo minacciati da un disegno di legge che viola i diritti dei popoli indigeni e che permette l’estrazione mineraria, la deforestazione e l’allevamento di bestiame. Molti altri progetti violano i diritti dei popoli nativi, uccidono la foresta provocando disastri e massacri contro gli insediamenti umani. Nonostante ciò, le popolazioni indigene continueranno a combattere per proteggere l’Amazzonia, la foresta, la biodiversità”. ( Adriano Karipuna)
Bolsonaro è stato connivente dei cercatori d’oro che hanno devastato l’Amazzonia. I garimpeiros, i cercatori illegali d’oro e stagno, negli ultimi anni sono penetrati indisturbati armati di fucili e picconi nel cuore dell’Amazzonia. Hanno deviato fiumi, degradato il suolo, ucciso gli indigeni ribelli. E le forze dell’ordine, chiamate a vigilare i baluardi della biodiversità, non sono riuscite a fronteggiare la minaccia, o, più probabilmente, non hanno voluto.
Un’inchiesta, pubblicata dal New York Times, ha denunciato le attività estrattive illegali in Brasile. Secondo il quotidiano statunitense, che ha vagliato migliaia di scatti satellitari assieme all’équipe “Rainforest Investigations” del Pulitzer Center, i garimpeiros hanno conquistato la Foresta, costruendo 1269 piste di atterraggio per facilitare il traffico di risorse illegali. Di queste 217 si trovavano proprio nelle zone protette abitate dagli indios Yanomami, una delle più numerose tribù del Sud America. Questi indigeni vivono in relativo isolamento, abitano nelle foreste pluviali e sui monti al confine tra il Brasile settentrionale e il Venezuela meridionale. Gli Yamomani sono minacciati da attività minerarie, allevamenti e da una situazione sanitaria nel caos. Hanno prosperato per migliaia di anni nelle foreste pluviali dell’America meridionale, ma oggi devono affrontare invasioni criminali, violenze e malattie e il governo non li protegge.
Il comportamento dell’esercito brasiliano ha peggiorato la situazione costruendo caserme nel cuore della loro terra. I soldati hanno costretto alla prostituzione le donne native diffondendo malattie a trasmissione sessuale nella comunità indigena.
Negli anni ’80, 40.000 cercatori d’oro brasiliani invasero la terra degli Yanomami provocando immense sofferenze. Gli invasori sparavano ai nativi, distruggevano i loro villaggi e diffondevano malattie per loro letali. In soli sette anni scomparve il 20% di questa comunità.
Dopo una lunga campagna internazionale condotta da David Kopenawa Yanomami, da Survival International e dalla CCPY (la Commissione Pro Yanomami), nel 1992 la terra brasiliana degli Yanomami fu demarcata come “Parco Yanomami” e i cercatori d’oro espulsi.
Il governo di Bolsonaro ha rifiutato di riconoscere loro il diritto alla proprietà collettiva della terra, sebbene abbia sottoscritto la Convenzione ILO 169, la legge internazionale che promuove e protegge i diritti delle popolazioni indigene e tribali.
Dai dati raccolti da Global Witness (https://www.facebook.com/GlobalWitness/), una ONG internazionale impegnata a rompere i legami tra sfruttamento delle risorse naturali, conflitti, povertà, corruzione e violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, è emerso che il Brasile è ai primi posti a livello mondiale per numero di omicidi legati ai diritti sulla terra e alle questioni ambientali, la maggior parte dei quali avvenuti in Amazzonia.
Tra il 2012 e il 2020 nel paese sono stati registrati 317 omicidi di questo tipo. Raramente le notizie di questi crimini escono dai confini nazionali. È il caso dell’assassinio di Dom Phillips, 57enne storico collaboratore di The Guardian, ucciso mentre stava eseguendo ricerche per un libro sugli sforzi di conservazione in Amazzonia. Insieme con lui è stato freddato anche Bruno Pereira, 41enne ex funzionario del FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio https://www.survival.it/su/funai), a suo tempo licenziato.
Secondo il Financial Times, nello stato di Amazonas, dove sono stati uccisi Phillips e Pereira, il numero di omicidi nel corso del 2021 è aumentato del 50% rispetto al 2020. I due ricercatori sono stati assassinati nella Valle del Javari, dove risiede la più grande concentrazione al mondo di tribù non contattate, ed è una delle regioni più sensibili dell’Amazzonia brasiliana. Esistono circa 400 tribù, ognuna con propria lingua, cultura e territorio per un totale di circa un milione di individui.
I vari governi, nel corso degli anni, hanno riconosciuto alle popolazioni indigene 690 “territori protetti”, quasi tutti in Amazzonia.
Con l’elezione di Lula le attese degli ambientalisti, degli indigeni e del mondo, ora, sono altissime. Il nuovo presidente riuscirà a mantenere la promessa di proteggere la foresta tropicale come mai prima d’ora, di ridare forza agli enti statali come il FUNAI, svuotati di personale e di finanziamenti da parte di Bolsonaro, istituire un ministero per i Popoli indigeni e demarcare le loro terre ancestrali?
Il neo-eletto presidente dovrà mantenere le promesse sostenute in campagna elettorale su ambiente e indigeni. Lula dovrà sciogliere il nodo dell’autostrada BR-319 che dovrebbe transitare nel centro della foresta amazzonica brasiliana.
L’IBAMA (http://www.ibama.gov.br/index.php Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili) ha accordato la licenza preliminare per i lavori di rifacimento e pavimentazione di un tratto di 405 chilometri della BR-319 da Porto Velho (capitale dello stato di Rondônia) a Manaus (capitale di Amazonas).
“Il Brasile è pronto a riprendere il ruolo di protagonista nella lotta per l’ambiente e contro il cambiamento climatico e lotteremo per la deforestazione zero in Amazzonia”, ha dichiarato Lula nel suo primo discorso dopo la vittoria.
L’ex-ministra dell’Ambiente Marina Silva (2003-2008) ha ricordato in un’intervista al Corriere di come si riuscì per quasi un decennio a ridurre la deforestazione dell’83% nella regione amazzonica. Marina Silva lasciò il governo Lula per forti disaccordi proprio sulla politica ambientale e per le pressioni della lobby agro-forestale. “Ma la visione di Lula è cambiata – ha dichiarato Marina Silva – si è impegnato a ripristinare l’agenda ambientale, affossata da Bolsonaro. Ha raccolto le nostre proposte per raggiungere la deforestazione zero, demarcare le terre indigene, avviare la transizione verso un’economia sostenibile nell’ambito del cambiamento climatico, della transizione energetica e della protezione del bioma brasiliano e dei popoli originari.”
Il presidente neo-eletto dovrà confrontarsi con il pericolo di politiche anti-indios da parte di governatori bolsonaristi di sette Stati.
Speriamo che Lula non deluda le attese e riesca nell’intento di salvaguardare il Polmone verde del mondo, parte vitale dell’ecosistema globale, riconosciuto, nel 2000, dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.
Patrizia Larese

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