27 Aprile 2024 20:38
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Una nuova politica economica…quando?

Una nuova politica economica…quando?

Come favorire  l’integrazione europea e impegnarsi a far  accrescere la dimensione sociale dell’Europa Unita.

 

La domanda che siamo chiamati a porci è: “Quale democrazia e quale capitalismo?” E’ una domanda senza risposta – nella storia – se viene riproposta, oggi, in piena crisi della globalizzazione. E’ ritornata nella mia mente ascoltando il discorso programmatico del nuovo presidente del Consiglio, il presidente Meloni. E’ apparsa la sua idea di alternativa politica, ma non mi è sembrato che emergesse con chiarezza l’approccio, fondamentale, a una nuova politica economica.

Eppure, il tema della politica economica dell’Italia non può essere completato perché è ancora incerto, per tutti, il “come” fare camminare l’integrazione europea e perché è necessario fare crescere politicamente l’Europa Unita. Le regole per rafforzare una politica economica comune hanno  espresso – ancora – solo delle tracce: si devono affrontare i temi degli accordi commerciali, ma divergono le posizioni in campo; bisogna fare l’elenco dei diritti da tutelare e integrare la visione culturale per “entrare” nel contemporaneo, solo per fare qualche sostanziale esempio incompiuto. Il modello del “freno del debito” per indirizzare la politica economica ha lasciato “orfana” – solitaria – la politica monetaria per molti anni, quando già aveva ostacoli nel consolidarsi come nuova moneta accanto al dollaro a causa di svariati contropoteri globali Il nuovo patto di stabilità è ancora lontano e poggia su una “visione di assenza” del debito comune di lungo periodo, favorendo la critica (stupida) che i cittadini europei sono ancora sudditi delle tecnocrazie.

Il presidente Meloni ha insistito sul ripristino della sovranità fiscale, che, al momento, deve tenere conto – pur rafforzando il principio nazionalistico – dell’attuale scontro tra creditori e debitori a livello globale. Bisogna trovare il modo di come rompere il “blocco” dei creditori  finanziari e responsabilizzare l’unione dei debitori (Stati, imprese e famiglie).

L’alternativa politica – che scioglie anche questo nodo – ancora non è nata, e non era e non è  presente nell’eventuale coalizione di sinistra.

Siamo, quindi, in un’era di destra democratica, legittimata dal voto; essa cerca di dire come riformare il capitalismo necessario, e, per fortuna, non è più emersa la vecchia idea che si può fare a meno dell’euro. Anzi, c’è stato una accenno agli euro-bond. Non si è fatto cenno ad una visione euro-mediterranea sui “perdenti” e i “vincenti” dell’intera macroarea, connessa alle nuove idee sulla Via della Seta o Via del Cotone. E forse, non a caso, questo tema non è stato al momento toccato. Rimane una fondata speranza: la realtà che ci avvolge è talmente complessa da suggerire, a tutti, di non prendere scorciatoie che non hanno alcun senso.

L’Italia ha bisogno di un salto culturale, la nuova politica economica non riparte con nuove alchimie sulla legge elettorale, ma su un nuovo patto sociale tra tutti i lavoratori e tutte le imprese (profit e non profit); devono emergere nuovi valori di condivisione, senza egemonie culturali. I progetti hanno bisogno di  uno spettro largo di moralità, cioè palesemente utili ai più, con il tema delle disuguaglianze nazionali ed internazionali al centro della riflessione.

Ecco, allora, che diventa chiaro il progetto di fondo: fare nascere una politica economica  coordinata con le politiche dei continenti significa riformare gli organismi plurali (Comunità Europea e Parlamento Europeo, Onu, G20 allargato).

E’ questa la vera strada per sciogliere la domanda: ma democrazia e capitalismo possono diventare compagni di viaggio e con quali modelli istituzionali?

Questo dibattito è alla base della nascita dei nuovi partiti, capaci di elaborare  risposte nuove alle domande già consolidate di rinnovamento a cui si è accennato. Domande diverse da  quelle elaborate nel secolo passato.

Pasquale Persico

economista

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